È trascorso quasi mezzo secolo dalla morte di Giorgio Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo ucciso in un agguato mafioso ordinato da Leoluca Bagarella il 21 luglio 1979. Al vicequestore, tra i primi a capire le trasformazioni criminali del capoluogo siciliano negli anni Settanta cogliendo i rapporti tra politica e Cosa Nostra, si deve l’intuizione di un metodo investigativo, condiviso con una “squadra” di uomini a lui legatissimi, che ha rivoluzionato il modo di fare indagini in Italia.
A 46 anni dalla sua morte l’Università degli studi, con l’Associazione nazionale magistrati e la Polizia di Stato ha voluto ricordare l’attualità del suo messaggio. “Le intuizioni legate ai metodi investigativi di Giuliano, sono state fondamentali per esercitare una concreta azione di contrasto giudiziario alle mafie”,ha spiegato il procuratore della Repubblica Antonio d'Amato sottolineando il valore dell'iniziativa condivisa dalle Istituzioni locali. Un incontro straordinario quello introdotto dalla rettrice Giovanna Spatari onorato dalla presenza del figlio di Boris Giuliano, il prefetto Alessandro, attualmente a capo della Direzione centrale anticrimine, al quale sono intervenuti il docente Unime Luigi Chiara e il giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo che negli ultimi 30 anni ha raccontato le trasformazioni del fenomeno mafioso anche a livello internazionale dopo le stragi di Falcone e Borsellino. “Oggi più che mai conoscere i fenomeni di infiltrazioni mafiose è importante per rompere quel silenzio generalizzato che impera, tanto quanto l’impegno collettivo, evitando di delegare solo alla magistratura, alle forze di Polizia l’impegno contro queste realtà”, ha detto il cronista. In apertura gli interventi del presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Messina Andrea La Spada, dell’arcivescovo Giovanni Accolla e del questore Annino Gargano, che ha ricordato Giuliano quale “simbolo di continuità professionale e umana”.
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